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di bellezza e di vanità; pensava alle feste dove l’avevano proclamata regina, ai caldi teatri, ai ritrovi, a tutti gli altri piaceri del lusso. E le parve che somigliassero a quella bellissima giornata di autunno, le parve essere anche lei una esplicazione di quella natura vincitrice; come la luce, ella aveva dominato e sottoposto il mondo; come in tutte le cose, essa aveva intesa in sè quella forza produttrice che si svolge senza fine; come la spiaggia, come il mare, come il cielo, ella era stata grande nel suo isolamento. E reclinò la testa sulla mano, quasi volesse rientrare nel passato.

Ma venne l’ombra, la tavolozza del mare si annebbiò, il cielo fu violetto, poi grigio, poi bruno; lo scoglio si ammantò di nero. Ella si scosse, alzò la testa, si trovò sola, nella notte; in una notte che le era entrata nell’anima. Nulla più rimaneva dello splendido passato; nulla più del rosso tramonto: ambedue erano scomparsi nella oscurità. Allora lei, fiera e forte, fu presa da un abbattimento novello, da un senso di debolezza; le pareva che per lei fossero inaridite le sorgenti della vita e della felicità. Sì, tutto finiva; niente meritava la pena dell’esistenza; esaurita per sempre la fonte delle gioie. Poi, quasi per istinto, si volse; a pochi passi era fermato un uomo, un giovane. Ella, malgrado l’ombra, riconobbe il conte Riccardo.

— Laura! — chiamò egli con una voce grave ed affettuosa.

— Eccomi — rispose lei, alzandosi e dandogli la mano.

Nella notte alcune stelle scintillavano.