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mattezze. Dopo, non più — il periodo è passato, la serietà ritorna. Fate il medesimo ragionamento per la villeggiatura.

Viene un’epoca dell’anno in cui la città, che pure abbiamo sopportata pazientemente per tanto tempo, comincia a diventare insoffribile; la polvere delle strade che abbiamo inghiottita senza mormorare, ci affoga; il rumore delle carrozze di cui non ci accorgevamo, ci assorda; i volti abituali ci diventano noiosi ed antipatici. Tutto è stupido, tutto è pesante, senza gusto e senza sapore — non si respira non si dorme, non si mangia più. Vi è bisogno di aria, di luce, di sole, di verde: cose di cui non si era mai sentita la mancanza; ora si cercano dovunque. Allora tutti sembrano invasati da un timor panico — bagagli, partenze, fughe su tutte le linee... ferroviarie. Si vuole la villa, gli alberi e si va a cercarli con premura, con ansia — due sono gli scopi: fuggire la città abbominata e ritrovare il sogno dei poeti, dei pensatori, dei filosofi: la campagna. Pare un impeto, un furore, una frenesia: la campagna o la morte. È lecito non accorgersi che essa esista nei lunghi mesi d’inverno, la si dimentica nella ridente primavera e nel principio dell’estate; ma giunto l’agosto, l’amore campestre arriva come una palla di cannone, e via!