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bacco. I militari non trovavano più l’agio nè la voglia di occuparsi di me. La mia relazione col tenente Remigio, conosciuta da tutti, eccetto che da mio marito, aveva accresciuto il mio isolamento, il quale, del resto, m’era gradito, anzi necessario nello stato d’animo in cui da un po’ di tempo vivevo. Remigio, dopo la lettera famosa, non aveva più scritto. Sognavo per lui de’ pericoli, che mi apparivano tanto più orrendi quanto più erano incerti. Avrei potuto sopportare forse la sicurezza dei rischi d’una battaglia; ma il non sapere se il mio amante andasse alla guerra o no, era un dubbio che mi faceva impazzire. Scrissi a Verona ad un generale che conoscevo, a due colonnelli, poi a qualcuno di quegli ufficialetti, i quali mi avevano tanto corteggiato a Venezia: nessuno rispose. Tempestavo Remigio di lettere; niente.

Intanto le ostilità principiarono: la vita civile era soppressa; la ferrovia, le strade non servivano ad altro che ai carriaggi delle munizioni, delle ambulanze, delle proviande, agli squadroni di cavalleria, che passavano in mezzo a nuvoli di polvere, alle batterie, che facevano tremare le case, ai reggimenti di fanteria, che si svolgevano l’uno dopo l’altro interminabili, sinuosi, striscianti come un verme, il quale volesse abbracciare nelle sue enormi spire tutta quanta la terra.

Una mattina calda, affannosa, il 26 del giugno, capitarono le prime notizie di una bat-