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senso 265

Mi piaceva in quell’uomo la stessa viltà. Quando esclamava: — Ti giuro, Livia, non amerò e non abbraccierò mai altra donna che te — io gli credevo; e, mentre egli mi stava innanzi ginocchioni, lo guardavo adorando, come fosse un Dio. Se mi avessero chiesto: — Vuoi che Remigio diventi Leonida? — avrei risposto: — No. — Che cosa mi doveva importare dell’eroe? Anzi la perfetta virtù mi sarebbe parsa scipita e sprezzabile al paragone de’ suoi vizii; la sua mancanza di fede, di onestà, di delicatezza, di ritegno mi sembrava il segno di una vigoria arcana, ma potente, sotto alla quale ero lieta, ero orgogliosa di piegarmi da schiava. Quanto più il suo cuore appariva basso, tanto più il suo corpo splendeva bello.

Due sole volte e per un solo istante l’avrei bramato diverso. Passavamo un giorno lungo una fondamenta che guarda la cinta dell’Arsenale. La mattina era allegra d’un sole abbagliante; alla sinistra spiccavano sull’aria turchina gli alti fumaiuoli a campana capovolta e le cornici candide e i tetti rossi, mentre sulla destra correva il lungo muraglione dei Cantieri, severo e chiuso. Gli occhi abbacinati riposavano in certe ombre cupe, lì dove si affondava un sottoportico o si stringeva una calle; e l’acqua brillava di tutti i verdi, rifletteva tutti i colori, si perdeva qua e là in buchi e striscie di un nero denso. Correvano e saltavano sulla fondamenta, la