Pagina:Senso.djvu/255


senso 253

Lo avevo pigliato spontaneamente, anzi lo avevo proprio voluto io. I miei erano contrarii ad un matrimonio così male assortito; nè, bisogna dire la verità, il pover’uomo ardiva di chiedere la mia mano. Ma io mi sentivo stufa della mia qualità di zitella: volevo avere carrozze mie, brillanti, abiti di velluto, un titolo, e sopra tutto, la mia libertà. Ce ne vollero delle occhiate per accendere il cuore nel gran ventre del conte; ma, una volta acceso, non provò pace finchè non m’ebbe, nè badò alla piccola dote, nè pensò all’avvenire. Io, innanzi al prete, risposi un fermo e sonoro. Ero contenta di quello che avevo fatto, ed oggi, dopo tanti anni, non ne sono pentita. In fondo, non mi pareva di dovermene pentire neanche in quei giorni in cui, aperta l’anima quasi d’un tratto, mi sfogavo nel parossismo di una prima passione cieca.

Sino ai ventidue anni passati il mio cuore era rimasto chiuso. Le mie amiche, deboli in faccia alle lusinghe dell’amore sentimentale, m’invidiavano e mi rispettavano: nella mia freddezza, nella mia sdegnosa noncuranza delle parole tenere e delle occhiate languide vedevano una preminenza di raziocinio e di forza.

A sedici anni avevo assodata già la mia fama scherzando con l’affetto di un bel giovane del mio paese e disprezzandolo poi, sicchè il misero tentò di uccidersi e, guarito, scappò da Trento in Piemonte, e si arruolò volontario, e in una delle battaglie del ’59, non