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scere sè stessi: io mi studio con tanta trepidazione da tanti anni, ora per ora, minuto per minuto, che credo di conoscermi a fondo e di potermi proclamare una filosofessa perfetta.

Direi di avere toccato il colmo della mia bellezza (c’è sempre nel fiorire della donna un periodo breve di suprema espansione) quando avevo di poco varcato i ventidue anni, a Venezia. Era il luglio dell’anno 1865. Maritata da pochi giorni, facevo il viaggio di nozze. Per mio marito, che avrebbe potuto essere mio nonno, sentivo una indifferenza mista di pietà e disprezzo: portava i suoi sessantadue anni e l’ampia pancia con apparente energia; si tingeva i radi capelli e i folti baffi con un unguento puzzolente, il quale lasciava sui guanciali delle larghe macchie giallastre. Del rimanente, buon uomo, pieno, alla sua maniera, di attenzioni per la giovine sposa, inclinato alla crapula, bestemmiatore all’occorrenza, fumatore instancabile, aristocratico burbanzoso, violento verso i timidi e pauroso in faccia ai violenti, raccontatore vivace di storielle lubriche, che ripeteva a ogni tratto, nè avaro, nè scialacquatore. Si pavoneggiava nel tenermi al suo braccio, ma guardava le donnette facili, che passeggiavano accanto a noi nella piazza di San Marco, con un sorriso d’intelligenza lasciva; ed io da un lato n’avevo gusto, giacchè l’avrei cacciato volontieri in braccio di chicchessia pure di liberarmene, dall’altro ne sentivo dispetto.