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quattr’ore al lido 179

una ondata minacciosa, che vedete precipitarsi contro di voi, e già quasi vi seppellisce, ma ecco invece che si spiana e si risolve in nulla; gli assalti vi vengono vigliaccamente dai fianchi e dalle spalle, senz’ordine, senza ragione; vi stancate, vi spossate, cominciate a disperare; date quasi un addio alla terra, e toccate dopo sovrumani sforzi la riva, uscendo da quell’acqua sciaguattata da tutti i venti, nera, orlata di certe frange e certi fiocchi d’argento sudicio, che le dànno aspetto di uno sconfinato drappo funereo.

Eppure nel mare quieto o nel mare agitato l’uomo si sente pieno di vigoria. La sua buona vanità gli fa credere o di dominar la natura, o di essere tanto grande, che Dio, per ischiacciarlo, debba scatenargli contro tutte le furie degli abissi. Svaniscono le noie mortali, il cuore si ritempra, si fa provvisione di coraggio e di forza. Un’ora in mare è un’ora bene impiegata: in quella salsedine c’è un po’ di ferro per l’anima.


Uscendo dall’acqua si diventa Greci. Dopo essere saliti le lunghe scale di legno, dove sui gradini viscidi s’arrischia di sdrucciolare e le alghe fanno talvolta dei brevi taglietti ai piedi, si entra nel proprio camerino e si avvolge il corpo nudo in un ampio lenzuolo; poi si esce così drappeggiati sul ballatoio, che guarda il mare. Alcuni bagnanti stanno ancora in acqua presso la riva, tenendosi —