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santuario 147

II.


La stanza del rettore era un paradisetto. Faceva caldo. Nel camino brillava un gran fuoco, e dinanzi ad esso un uomo lungo e stecchito, una specie di Don Chisciotte prete, si stava scaldando la schiena con le mani dietro. Appena mi vide entrare, innanzi di aprire la lettera ch’io gli presentavo, mi chiese se avessi fame, se avessi freddo, se fossi stanco, se volessi bere; e senz’attendere la risposta, andò alla credenza a cavarne una bottiglia, mi fece sedere nella poltrona accanto al fuoco, e chiamò il servo, ordinandogli di preparare la cena. Bevetti il vermouth, due bicchieri, e il rettore voleva farmi bere il terzo a ogni costo. Lieto come una pasqua, mi pigliava per le mani, mi picchiava famigliarmente sulle ginocchia, sorrideva con un certo ghigno bonario tutto cuore, e diceva:

— Ci ho proprio gusto: mi rincresceva davvero di finire l’anno solo come un eremita. Sia benedetto il cielo: ho trovato un compagno. Pasquale, un’altra brancata di fascine, un altro ceppo ben secco. Bada all’arrosto, che non s’abbrustolisca troppo. —