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152 capitolo decimosesto.


cui si scioglievano i grassi, avvampavano gli alcool, si contorcevano e scoppiettavano le balle di baccalà, i barili di carne salata e di carne secca e le casse di biscotti, sollevando nuvoloni di fumo nero e fetente e nembi di scintille che uscivano impetuosi dal boccaporto, avvolgendo l’albero di maestra e le vele.

Cupi brontolìi e sordi scoppi s’udivano sotto il ponte a cui vi facevano eco le urla e i ruggiti sempre più spaventevoli delle dodici tigri che si sentivano soffocare, malgrado le coperte inzuppate d’acqua che avvolgevano le grandi gabbie.

I legnami scricchiolavano, i puntelli del frapponte gemevano e cadevano, le tavole della coperta bruciavano, e il catrame delle fessure e dei fianchi provieri della nave bolliva, spandendo all’intorno un acre odore.

Nella camera comune dell’equipaggio nessuno poteva più resistere. Gli uomini che formavano la catena coi mastelli, avevano dovuto ritirarsi da quel posto pericoloso per non venire soffocati dal fumo, e per tema che il pavimento mancasse improvvisamente sotto ai loro piedi.

Le pompe però funzionavano sempre, senza posa. I marinai che conservavano un sangue freddo ammirabile, lavoravano con suprema energia sotto gli occhi del capitano e del pilota Asthor.

Quando uno era sfinito, un altro lo sostituiva, e i torrenti d’acqua continuavano a rovesciarsi, con fischi acuti, nelle fumose cavità del vascello.

Tre volte il capitano Hill, con un’audacia senza pari, si era avventurato fra le gettate di fumo irrompenti dal boccaporto e i nembi di scintille per accertarsi dello stato dell’incendio, ma era stato costretto a retrocedere per non morire asfissiato.

Alle tre pomeridiane Asthor, che si era avventurato nella camera