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150 Capitolo Quindicesimo.

— Allora assaggiamo. —

Garcia stava per addentarne una che aveva già ben ripulita col lembo della sua giacca, quando un gesto imperioso del marinaio lo arrestò.

— Alto là! Imprudente! — gridò il castigliano. — Vuoi morire? —

I due portoghesi lo guardarono come per chiedergli se per caso era diventato improvvisamente pazzo. Vantava la squisitezza di quei tuberi e proibiva che li assaggiassero minacciandoli di morte immediata.

— È manioca, — disse Diaz.

— Ne sappiamo meno di prima, — disse Alvaro. — Manioca! Che cos’è?

— Stupido che sono! — esclamò il marinaio. — Mi dimenticavo che in Europa non si conosce ancora questo prezioso tubero.

Ora v’insegnerò come dovrete fare per mangiarlo, senza correre il pericolo di avvelenarvi giacchè queste frutta della terra contengono un succo estremamente pericoloso.

Tu Garcia cercane altri mentre io mi metto al lavoro. Vi offrirò delle gallette che nulla perderanno nel confronto con quelle di granturco.

Anzi giacchè per ora nulla abbiamo da paventare dagli Eimuri, ce ne faremo una piccola provvista.

— Sono impaziente di assaggiare le vostre gallette, — disse Alvaro. — Sono già molti giorni che abbiamo dimenticato il sapore del buon pane.

— Non posso disporre che di mezzi limitati ma basteranno per noi, — disse il marinaio. — Quando saremo giunti nei villaggi dei Tupinambi vi mostrerò la fabbricazione delle gallette in grande. —

Frugò nel suo sacco da viaggio e levò una spina di pesce dentellata, che fino ad un certo punto rassomigliava ad una raspa, poi una piastra d’argilla cotta e ben levigata, quindi una specie di budello formato di nervature di foglie intrecciate.

— Signor Alvaro, accendete intanto del fuoco, là, dietro quel grosso tronco, così non lo si vedrà stando sull’altra riva. —

Poi prese i tuberi uno ad uno, stese al suolo una immensa foglia di banano e servendosi della spina di pesce dentellata, rapidamente li sbriciolò ottenendo una pasta molle satura d’una materia lattiginosa.