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Cap. VIII.

La fuga.

Aliabad nel vedersi innanzi quel giovanotto coll’arma alzata, cogli occhi fiammeggianti, pronto ad effettuare la minaccia alla prima esitazione, alla prima parola, al menomo gesto, si era arrestato pallido, atterrito, tanto più che non possedeva, in quel momento, alcuna arma.

È bensì vero che poteva con un grido far accorrere un vero reggimento di servi e di soldati, ma comprendeva pure che quel grido sarebbe stato la sua sentenza di morte, poichè quel giovane pareva uno di quegli uomini che non hanno paura, nè che minacciano invano.

— In ginocchio, ti ripeto! — disse Nadir, facendo fischiare in aria la scintillante lama del kandjar.

Aliabad, che non era coraggioso, e che, come si disse, si vedeva perduto, cadde in ginocchio, mormorando con voce tremante:

— Non uccidermi, signore.

— Nadir! — esclamò Fathima, slanciandosi verso il giovanotto.

— Non temere — rispose questi — ma al primo grido che manda quest’uomo, qui scorrerà del sangue.

— E che farai di questo sciagurato?

— Lo ridurrò all’impotenza.

— In qual modo?

— Lo vedrai.

— Ma possiamo venire sorpresi, Nadir, e tu...