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Capitolo IX.

CUBA


La situazione intanto si aggravava sempre. Il capitano inquietissimo camminava da mane a sera sul ponte, poco curandosi del calore torrido che regnava in coperta. Il secondo se ne stava sempre rinchiuso nella sua cabina, parte ubriacandosi e parte dormendo: l’ufficiale passeggiava qua e là agitato, seguendo il suo comandante. Di tratto in tratto Solilach si fermava presso il boccaporto, porgeva ascolto alle grida rauche dei negri, che chiedevano continuamente:

— Acqua! Acqua!

— Se continua così, non porterò vivo un solo schiavo a Cuba! — esclamò il capitano con rabbia.

— È vero, — rispose l’ufficiale asciugandosi la fronte madida di sudore. — Se il vento non viene a rinfrescarci un po’, non so come la finirà per noi.

— Sempre calma, sempre calma! — esclamò Solilach con voce rauca.

— Pare che siamo sfuggiti all’incrociatore per venir a morire sotto la zona torrida.

— Ah! Darei un anno della mia vita per avere un secchio d’acqua fresca o almeno un po’ di vento. Decisamente questo quinto viaggio mi porterà sventura.

— Che non si rompa questa calma?

— Ci vorrebbe un uragano.

— E non si vede una nube, signore.

— Questa è una zona fatale. Tre anni or sono, in questi stessi paraggi, ho incontrato un vascello portoghese, con tutto l’equipaggio morto di sete.

— Sì, era il Gommez Lusiades, me lo rammento bene, — disse l’ufficiale sospirando.

— Perchè sospirate? — chiese il capitano, notando che la faccia dell’ufficiale si alterava.

— Avevo un fratello a bordo di quel legno.

— Speriamo che a noi non tocchi la medesima sorte, — disse Solilach.

Quattro giorni trascorsero ancora; la febbre gialla era alquanto diminuita, ma la calma perdurava. Il cielo, sempre infiammato, riversava sul mare torrenti di fuoco, e pareva che volesse bruciar la nave ed assorbire l’oceano.