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cederammi un cantuccio del letto». Ma Giannetto, sorridendo, disse «ch’esser non può ch’egli accompagnato si soffra di dormire, che pur troppo a me è notissimo il suo costume; laonde a questa volta per me non saravvi tirato il chiavistello al certo, che io so ben io per tali derrate quali monete verrebbonmi pagate»; e Carletto tuttavia, infilzando filastrocche, si studiava farla bere all’oste che molto caro al Sere egli era. Il perché rivolto a lui, quasi per levarsi quella noja d’attorno, così gli disse: «Se voi dallo Arciprete sarete giammai in letto accolto, io sono contento di perdermi la cena che voi ingojata v’avete or’ ora»; «Ed io - disse Carletto - tutte quelle cose che meco recai ci giuoco, se dal medesimo verronne scacciato».

Così tutti e due in accordato rimasti che furono, Giannetto il guidò alla stanza dell’Arciprete. Allora Carletto ito là entro, d’ogni cosa spogliato essendosi, chettamente si pose sotto le lenzuola. Ma l’Arciprete, che di legger sonno era, a quel po’ di dimenio desto avendosi, gridò, cacciato il destro piè fuori del letto per paura: «Chi è che sì importuno d’appresso mi si corica?». Al che Carletto fece risposta con dire: «Dio vi guardi dalle mie mani». E l’Arciprete tuttavia: «Uno ribaldo se’ tu forse? Oh Ciel, chi mi difende?». E Carletto: «Io mi sono io, un ministro della Giustizia, che vengo or’ ora stanco di lontano paese, ove

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