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ATTO SECONDO 299


Er. Se lo scellerato più consumato, se lo scellerato più grande del mondo, mi facesse tale rimprovero, tutte le sue colpe con ciò solo raddoppierebbero: voi, signore, vi ingannate.

Leon. Voi pure vi siete ingannata, signora, cambiando Polissene in Leonte. Oh tu creatura... non vuo’ chiamarti col nome che ti si addice, per tema che il grossolano vulgo, autorizzandosi del mio esempio, non adoprasse simile linguaggio senza riguardo al grado, e non dimenticasse la differenza che il buon costume deve porre fra le parole di un principe e quelle di un mendico. — Ho detto che ella è adultera, ed ho anche detto con chi; di più ancora, ella ha tradito il suo re, e Camillo è suo complice: colui sa quel ch’ella dovrebbe arrossire di conoscere, quand’anche il segreto non fosse posseduto che da lei e dal suo vile amante, che in lei riguardar debbe come in una profanatrice del letto nuziale, corrotta al par di quelle femmine a cui il minuto popolo prodiga gli epiteti più ingiuriosi. Sì, di quanto dissi, ella è colpevole, e colpevole è ancora della loro recente evasione.

Er. No, sulla mia vita, non ho alcuna parte in tal opera. Come vi addolorerà, fatto conscio della mia innocenza, l’avermi così oltraggiata! Mio caro sposo, temo che non sarà allora riparazione sufficiente il dire che erraste.

Leon. Le prove ch’io ho sono irrefragabili: saldo di più non è il centro dell’universo. — Conducetela prigione; quegli che innalzerà la voce in suo favore, sarà dichiarato colpevole di tradimento.

Er. Bisogna dire che qualche astro malefico domini nel cielo: aspetterò tempi più propizii. — Cari signori, io son poco inclinata a piangere, come suol fare il nostro sesso; forse la mancanza di vane lagrime farà inaridire la vostra pietà, ma il dolore dell’onor offeso alberga qui, (additando il suo cuore) e mi farà sentire un fuoco troppo cocente, perchè estinguersi possa colle lagrime. Vi scongiuro, signori, di giudicarmi con dolcezza; la volontà del re sia compita.

Leon. Mi si obbedisca. (alle guardie)

Er. Chi di voi vien con me? Chieggo in grazia a Vostra Maestà che le mie donne m’accompagnino, perocchè voi vedete che il mio stato esige le loro cure. Non piangete, (al suo seguito) semplici che siete; non ve n’è motivo: se sapeste che la vostra signora avesse meritata la prigione allora dovreste abbandonarvi al pianto; ma quest’accusa non volgerà che al mio massimo onore. — Addio, signore; non mai avevo desiderato che provaste dolori, ma oggi sono costretta a credere che un dì vi vedrò tristo. — Venite meco, mie donzelle; voi ne avete licenza.