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ATTO QUARTO 279

diverrai tu allorchè il vizio stesso sarà fatto tuo rettore? Oh tu ridiverrai un vasto deserto popolato di belve, tue antiche abitatrici!

P. Enr. Oh abbiatemi mercè, mio sovrano! (inginocchiandosi) Senza le lagrime che mi han tolta la facoltà di parlare, avrei prevenuto questo amaro rimprovero della vostra tenerezza, prima che il dolore avesse incrudite le vostre parole, e che vi foste dato a profferir discorso sì straziante. Ecco la vostra corona, e l’Essere che ne porta una eterna, la serbi ancora per lungo tempo sul vostro capo! Se io l’amo per se stessa, e non perchè essa compone la vostra gloria, ch’io non mi rialzi mai più da quest’umile giacitura, in cui il dovere, il rispetto e l’amore m’han posto. Il Cielo m’è testimonio, che allorchè entrai nella vostra stanza, e che trovato vi ho senza lena, un gelo di morte mi strinse il cuore. Se mento, possa io morire nell’onta de’ miei falli e non mai mostrare al mondo incredulo il nobile cambiamento che è risoluto nella mia anima! Riputandovi estinto e quasi estinto io stesso, o mio sovrano, per tale disavventura ho addirizzata la parola a questa corona, come se ella avesse potuto intendermi, e fatti le ho questi rimproveri: «le inquietudini che sono a te congiunte hanno divorata la vita di mio padre: tu sei l’oro più fulgido e più pericoloso! Ve n’ha uno, dicono, che serve di farmaco e mantiene la vita; ma tu uccidi quegli che ti porta». Fu proferendo queste parole ch’io me la recai in testa per cimentarmi con lei, come con un nemico che aveva sotto i miei occhi stessi fatto morire il mio genitore: soggetto di vendetta fidato ad un erede fedele e leale! Ma se il suo possesso ha contaminata la mia anima con un solo sentimento di gioia, o inturgidita la mia mente con alcun moto d’orgoglio; se un qualunque principio di ribellione o di superbia m’ispirò di ben accogliere questa corona; se l’idea de’ suoi privilegi solleticò anche menomamente il mio cuore, il Cielo l’allontani per sempre dalla mia testa e m’immerga nell’umiliazione del più oscuro vassallo, che colpito di terrore e di rispetto piega il ginocchio dinanzi a lei!

Enr. Oh mio figlio, mio figlio! fu il Cielo che t’infuse l’idea di togliere questo serto, onde aver mezzo di riguadagnare l’affetto di tuo padre, giustificandoti con tanta saviezza della tua imprudenza. Avvicinati, Enrico, assiditi accanto al mio letto, e ascolta il consiglio, senza dubbio ultimo, che ti dà la mia voce moribonda. Il Cielo sa, mio figlio, per quali vie strane, per quai tortuosi passi io son giunto a questa corona, ed io so di quali cure essa mi ha riempita la testa, finchè la cinsi: ma sulla tua discenderà più bella ed onorata, poichè i rimproveri che mi costò il suo conqui-