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atto secondo 125


Men. E lo fece in tempo, ne son sicuro: fosse egli rimasto anche un poco, e non avrei voluto esser lui per tutti i tesori di Corioli. — Il Senato è istrutto della novella?

Vol. Buone signore, andiamo. — Sì, sì, sì; il Senato ebbe lettere dal generale, che attribuivano a mio figlio tutto l’onore di questa guerra; con tal vittoria egli ha raddoppiato l’onore dei suoi primi fatti.

Val. In verità, meravigliose cose si dicono di lui.

Men. Meravigliose? ne fo fede: operò prodigi.

Virg. Gli Dei vogliano che sian veri!

Vol. Veri? può dubitarsene?

Men. Veri? giuro che sono veri. — Dov’è ferito?... Gli Dei salvino le vostre degne persone! (ai tribuni che s’avanzano) Marzio ritorna, e più cagione di prima egli ha d’essere superbo. Dov’è ferito?

Vol. Nella spalla e nel braccio sinistro; e ivi resteranno le larghe margini, che potrà mostrare al popolo, allorchè chiederà il posto che gli è dovuto. Quando cacciò Tarquinio, ei ricevè sette ferite.

Men. Una ne ha sul collo e due in una coscia; nove in tutto, ch’io sappia.

Vol. Prima di quest’ultima guerra aveva già ricevute venticinque ferite.

Men. Or dunque ne ha ventisette, ed ognuna fu esiziale al nemico. — Udite queste trombe?

(grida interne di acclamazione)

Vol. Son le foriere di Marzio, che fa volare innanzi a sè la vittoria e si lascia dietro il pianto. La morte, fantasima orribile, si asside sul vigoroso suo braccio, che s’alza, scende e sperpera i nemici di Roma. (squillo di trombe; entrano Cominio e Tito Larzio; fra loro Coriolano coronato con ghirlanda di quercia; uffiziali, soldati ed un araldo).

Ar. Sappi, Roma, che Marzio ha combattuto solo contro una intera città, racchiuso fra le sue mura, e che con gloria ha acquistato un nome che vivrà eterno. Entrate trionfatore in Roma, illustre Coriolano! (squillo di trombe; tutti gridano: Vita e gloria a Coriolano!)

Marz. Basta, basta, in mercè; tali grida mi addolorano. Ve ne prego, cessate.

Com. Vedete, signore, vostra madre...

Marz. Oh! voi avete, lo so, implorati tutti gli Dei per la prosperità delle mie armi.     (s’inginocchia)