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Sì, vale la pena. La nostra Dulcinea si chiamerà ormai Tarrasa.


20 agosto

Dopo Lerida, ultimo capoluogo catalano, la piana si allarga e comincia l’Aragona. Sparisce la vite, sparisce l’olivo, spariscono gli orti, gli alberi si diradano, il verde si fa più raro, mentre il sole infuoca.

La terra, come il viso e le case dei contadini, è risecchita, grigia, tormentata da rughe, da rilievi dolorosi e strani. Il fumo del treno resta sospeso nella caligine. Il sole è avvolto in un velo. È un caldo compatto, visibile, oltre che sensibile, che grava sulla natura immobile. L’unica cosa viva nel deserto pietroso siamo noi, è il treno che caccia ogni tanto un lamento inutile! Melancolia dei piccoli alberelli di stazione, sorrisi sudati e saluti di ferrovieri stanchi. Qui si capisce il mañana, il tira a campar. Il treno, avvicinandosi alla meta, si inoltra in un terreno più accidentato, tra pareti di tufo rosso e sagome stranissime di monti marrone-scuro seghettati e tagliuzzati su cui si incastrano vecchissimi paesi desolati. In lontananza la Sierra Guara.

Disperazione di questo orizzonte carico di luce, inutilità di questa terra. Perché disputarsela? Ci incrociamo con un treno ospedale. A Monzon alcuni carri merci carichi di biada. È tutta la guerra che abbiamo visto sinora.


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