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mini di fanteria della guardia, ed un ottanta cavalieri. Si rifletta un istante a questo pugno di veterani, cacciati in una piccola isola quasi reliquie di un naufragio, ed accampati sulla spiaggia. Chi avesse potuto ascoltare i discorsi di questi soldati di tempra ferrea, francesi, côrsi, italiani, polacchi, avrebbe fuor di dubbio udite cose meravigliose, ricordi di mezzo il mondo che avevano percorso, delle piramidi, delle pianure ghiacciate e fatali della Russia, delle Alpi, di Leipzig, di Marengo, del sole di Aulsterliz, di Eylau, e ciò non sarebbe stato tutto. Nomi come quello di Ney, — tu pure o Ney quanto quel nome ti accora — di Marmont, di Bernardotte, — e questi empiono di rabbia il cuore di quei vecchi guerrieri — del fastoso Murat! Che fu di Murat? Questi almeno è tuttora re in Italia. Con un vascello in un giorno o due lo si può ancora andare a trovare. «Pazienza sclama l’Italiano» — Vive l’empereur! grida il francese — Tutto non è ancora perduto dice il Polacco. Talvolta si va ancora in piazza d’armi; l’imperatore non ha dimenticato l’antico mestiere. Si dà fuoco alle artiglierie, ma i cannoni tuonano al vento. La è una povera musica!»

È d’uopo fare qualcosa. L’imperatore dell’Elba volle fin dai primi giorni conoscere i suoi stati, e percorse l’isola a cavallo, in compagnia del rappresentante d’Inghilterra Niel Campbell. Si ritenne abbia voluto farsi accompagnare da questi, e da una scorta per timore di un attentato. Nudriva timore sovratutto del comandante della Corsica, Brulart, il quale era stato capitano dei volontari nella Vandea, antico amico di Giorgio Cadoudal, e che era stato di recente mandato in Corsica quasi a scherno di Napoleone. Due giorni bastarono a far persuaso l’imperatore che i suoi stati non erano vasti, ma formò tosto il disegno di aprire strade, di condurre acque, di costruzioni, di migliorie di ogni natura. Voleva abbellire l’Elba come Tiberio aveva abbellito Capri. Il suo spirito irrequieto aveva d’uopo di pascolo; era mestieri uccidere il tempo.