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so; così i concerti a sbalzo con quel loro tempestare insistente, senza posa, dirotto, con quell’armonia babelica, o babele armonica, diedero vita alla forma ditirambica, libera, con versi lunghi e brevi, appajati, divisi, con rime alterne, vicine, lontane, a due, a tre, a quattro, a salti, a gruppi, a richiami. Chi non ha sentito queste otto stupende campane agitarsi tutte insieme furiosamente a stormo nelle solennità, non può imaginarsi l’effetto che rendono all’anima: da lontano dolci, graziose, festive, esilaranti: da vicino minacciose, opprimenti, terribili fino a darvi le vertigini. Le acute sembrano Eumenidi sibilanti il solvet sæclum in favilla; le gravi pajono urlare con voce di tuono il mane techel, phares di Daniele. Hanno qualche cosa di strapotente, di enorme, di michelangiolesco: e non sarebbero proporzionate che alla gran Basilica Vaticana, d’onde emanano le voci da udirsi per urbem et per orbem. Oh se volessero appena per un mese suonare incessantemente giorno e notte a mio benefizio! Anderei a star di casa là sotto: e coll’accompagnamento di quel fragore spaventoso mi sentirei capace di fare tre o quattro mila versi sul Giudizio universale e sul finimondo. Forse escirei da quella prova sordo o frenetico in compagnia di mezza la città: ma che importano queste piccole contingenze in confronto alla creazione di un capolavoro dell’arte?

Pensate adesso se coll’orecchio rieducato così da dodici anni, io possa ancora scrivere a ruota e riadattarmi alla smilza sestina, o alla monotona e posata ottava, come quando riceveva le inspirazioni dalle campane metodiche e flem-