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stata. Tutto quanto di meno uggioso mi trovai a dover fare furono lunghe marcie e contromarcie, ma lontano dal nemico, cosicchè mancava a queste manovre ogni poesia, ogni imprevisto, ogni rischio.

Nel reggimento militavano, volontari, giovani delle migliori famiglie d’Italia. Taluni anche ricchissimi, che nelle ore di libertà guidavano brillanti attacchi da cui s’eran fatti seguire nella lor vita militare. Eran bravi e simpatici giovani, i quali avean sentito il dovere di correre alle armi per la riscossa nazionale. Io era con essi nei migliori termini; ma era quello un ambiente troppo, per tanti aspetti, diverso da quello della Legione Romana del ’48 e della difesa di Roma dell’anno successivo. Anche le popolazioni, con le quali venivamo in contatto, non aveano nè il calore nè l’entusiasmo che nel ’48 avevamo trovato a Venezia, ad Ancona, a Ferrara, a Bologna specialmente.

D’altra parte i volontari eran guardati di traverso dagli ufficiali piemontesi, duri, impettiti e di scarsa mente tanto in alto che in basso; e li sottoponevano, con soddisfazione, severamente ai compiti più duri ed ai servizi più umili della vita del reggimento. Anche il mio caporale mi trattava più che duramente e pareva che ne godesse. Non mi risparmiava le fatiche più gravose; e mi comandava con le più volgari espressioni del suo orrendo dialetto. lo sopportava ogni cosa pazientemente; e mi pareva una ironia della sorte la diversità di quanto io era venuto a cercare in Piemonte con quanto vi avea trovato. Un giorno l’iracondo caporale mi apostrofò dicendomi:

Cammina, toch de plandron! Manica de ramass!

Al che io, con affettata gentilezza, risposi con un discorsino ben girato per far comprendere a questo mio superiore come con me non fosse necessaria tale energia di espressione per avermi obbediente. Ma il caporale non capì quanto gli dissi o credette volessi corbellarlo e mi sgraccò in consegna. Avendolo, però, incontrato durante la inflittami consegna, lo invitai