Pagina:Quel che vidi e quel che intesi.djvu/108


— 62 —

aiuto. Allora, rinfrancati, facilmente facemmo prigionieri tutti quanti i Francesi che si eran intromessi tra noi e le mura di Roma. Li contammo. Eran trecento, fra cui un colosso di capo tamburo. I quali noi, cantando la Marsigliese, regalando loro sigari, quasi presili fra le braccia, trionfanti acclamandoli quali fratelli repubblicani ingannati dai preti, li conducemmo dentro Roma. Appena in città demmo loro da bere, ed il capo tamburo festoso roteava la mazza.

Tutti protestavano che mai più si sarebbero battuti contro una repubblica; promessa, che, di lì a poche settimane, tradirono.


Il giorno dopo ho sentito da Garibaldi stesso che egli con pochi uomini avea inseguito, per venticinque miglia, tutti i Francesi che si dileguavano davanti a lui.

Nei giorni seguenti venne, da Montecchi nostro con l’inviato della Repubblica Francese Ferdinando de Lesseps, concluso un armistizio di un mese.


Mentre durava l’armistizio si accrescevano le fortificazioni, sempre meglio si vettovagliava la città, si preparavano gli ospedali. Io mi trovava in diverse commissioni, come quella delle fortificazioni e quella degli ospedali.

Essendo la mia casa paterna alla fronte di battaglia, Garibaldi vi mise per alcuni giorni il suo Quartier Generale. Mio fratello Antonio naturalmente non vide questo di buon occhio. Ciò non sfuggì a Garibaldi, il quale un giorno mi disse:

— Vostro fratello non ci è propizio. Non è lieto di darci ospitalità.

Fortunatamente i miei se ne andarono ad abitare a palazzo Giustiniani. Ed io rimasi solo faccia a faccia con Garibaldi e con quelli dei suoi che aveva condotto seco da Montevideo. Eran questi una sessantina; i quali, quasi tutti, trovarono la morte nell’assedio di Roma.