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388 il morgante maggiore.

212 Ringraziò Carlo Iddio devotamente,
     Che tante grazie gli avea conceduto;
     Or qui comincia un mar tanto frangente
     Di pianto e duol, che non sare’ creduto:
     Chi truova il figliuol morto, e chi ’l parente,
     Amico, o frate; e quel ricognosciuto,
     Abbraccia il corpo, e l’elmo gli dilaccia,
     E mille volte poi lo bacia in faccia.

213 Carlo si pose per dolor la mano
     Agli occhi, quando Astolfo morto vide;
     E se potessi, come il pellicano
     Quando la serpe i suoi nati gli uccide,
     Lo sanerebbe col suo sangue umano:
     Così per tutto quel campo si stride;
     Rinaldo piange, Ricciardetto plora,
     Pensa se Namo anche piangeva allora.

214 Qui ci bisogna più d’una carretta,
     E tempo non è più tener quel Sole,
     Che per servire al suo fattore aspetta:
     O fidanza gentil, chi Dio ben cole!
     O del nostro Ancisan parola eletta!
     Il Ciel tener con semplici parole;
     O sicuri Cristian, gran parte è questa
     Di quella fede che v’è manifesta.

215 Credo che quegli antipodi di sotto
     Dubitassin fra lor più volte il giorno
     Che non fussi del ciel l’ordine rotto,
     Chè il bel pianeta non facea ritorno;
     O che fussi quel dì l’ultimo botto,
     E ritornassi all’antico soggiorno
     Prima che fussi il gran caos aperto;
     E in dubbio stessi lo emisperio incerto.

216 E’ se n’andò pure all’altro orizzonte,
     Finito un giorno naturale appunto:
     Forse la terra pensò, che Fetonte
     Avessi il carro nuovamente assunto:
     Carlo si stette con sua gente al monte
     La notte, insin che il mattin poi fu giunto,
     Ed ordinò che la gente cristiana
     Portata fussi in parte in Aquisgrana.