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sapreste meglio encomiare la perfezione del suo lavoro che dicendo: oh le sembrano naturali! le diresti testè spiccate dal ramo!

Da questa semplicissima riflessione, che può essere fatta da tutti, se ne traggono molte e non picciole conseguenze. Primieramente egli mi sembra di poterne conchiudere che, mentre cerchiamo un dato divertimento, ci parla ardentissimo il desiderio di un altro. Ci rechiamo al ballo, che domanda spazio e comodità di movimenti; eppure in quell’ora stessa, in quel luogo medesimo vi cerchiamo la calca. Il chiarore ci dà piacere; ma tale è l’incontentabilità nostra, da non rimanere appagata, se prima gli occhi nostri non si trovano sommersi nel buio, o non sono resi inetti a vedere. Ancora: ciò che ne sta sotto gli occhi non ne dà mai sì pieno diletto che non ci punga la brama di ciò ch’è fuori della nostra vista. Le naturali bellezze da noi esaminate fanno in noi germogliare il bisogno dell’imitazione, e, mentre attendiamo ai lavori dell’imitazione, siamo insensibilmente ricondotti colla mente ai tipi offertici dalla natura.

La novella mitologica delle Danaidi mi sembra fatta a posta per significare questo genere d’avidità e d’inquietudine così proprio dell’uomo. Come tutti sanno, a quelle sciagurate sorelle, che la prima notte del giacersi co’ mariti ficcarono loro nella gola un pugnale, fu dato in pena dal giudice del Tartaro di empiere continuamente un doglio, che per essere sforacchia-