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IV

ALLA MOGLIE

(1° febbraio 1462)


Ebe che fu in aspersi d’ambrosia amplessi giaciuta
sembrò della perduta verginità dolersi,

quando di pianto le care gote soffusa e disciolto
il crin, d’Ercole il volto piú non osò guardare;4

tale, Arïadna, i lenti tuoi occhi riaperti al mattino,
umido il ciglio e chino le nozze tue lamenti.

Giusta di tal dolore la causa è per te, mia diletta,
se làgnasi la schietta voce del tuo pudore.8

Ma debitrice sei a Venere in questo e al marito:
piega nel dolce rito ai desideri miei:

legge t’è il socio letto: (s’accora il vergineo pudore?)
usa il permesso amore lo sposo tuo diletto.12

Oh certo dolerti non puoi: mutato è il pudore in piacere:
dato t’è piú godere, o sposa mia, se vuoi.

Usa della tua sorte, non fare il tuo danno piangendo,
tristamente chiudendo del tuo piacer le porte.16

Vivere in ozio che giova? raccogli il tuo tenero amore
di gioventú nel fiore, fresco nell’alba nuova.

Fiore che presto il frutto darà: e tu cogli il piacere:
sul gemino origliere: l’amor godine tutto.20



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