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l’asino 47


«Di miele mi pasci, padrone;
                                        [un bacio t’ho dato pel miele:
          darò per la gualdrappa
                                        [più che un bacio, un abbraccio».
Avresti mai creduto che nell’asinuccio mio un Marso o un Cornificio facesse dei versi?

Un’altra cosa ancora: cerca con ogni studio e diligenza di avere un flabello di penne di pavone, (ma che sian tutte occhiute!) e mandamelo subito per mezzo del ragazzo che ti porta questa mia lettera: voglio sventolarlo con quello, il mio asinello, tanto al caldo che all’ombra. Stammi bene, come sto bene io, a patto che stia bene il mio asino-padrone, senza del quale non saprei vivere. Vale».

Pardo. — Questa epistola è un vero monumento di frenesia... se non è piuttosto cagione a noi d’immenso dolore. Ma noi dobbiamo cercare in ogni modo di guarirlo da questo delirio di pazzia, finchè la demenza non ha messo profonde radici.

Alt. — Io direi di far venir qui Azzio, che è tornato da poco da Roma, suo compagno di viaggio e di fatiche, per sapere da lui se aveva già dato fin d’allora qualche segno di questa pazzia, e se c’è pertanto qualche speranza di farlo rinsavire.

Pardo. — Buonissima idea! Lo mando subito a chiamare; poi, insieme con lui, ci avvieremo alla villa del nostro Vecchio.


Scena V.


Gli amici: Azzio, Pardo, Altilio.


Azz. — «Questo è il colle sacro alle Muse!» diceva il nostro Crasso; anzi — sia detto con vostra pace — il «mio» Crasso. Poichè è desso