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PREFAZIONE lxxxiii

tempo, e poi a mietitura se ne sta seduto in mezzo al polverone, nel suo campo quasi vuoto di spighe. E in immagini, suggerite talora da un semplice aggettivo, come dal πυγοστόλος la donna che si stringe la veste ai lombi1 per sedurre un ricco proprietario. E nell’atteggiamento d’una sentenza, come in quella secondo la quale Giove non gradisce che tra gli uomini avvenga come tra i pesci, che il piú grosso mangia il piú piccolo.

Poeta, in conclusione, della concreta realtà, e non della bellezza. Anzi, qualche volta, del meno bello, e del non bello.

Ma qui si può opportunamente ricordare un giudizio del Fattori. Il quale, in un sonetto, narra d’aver visti una volta due popolani in contemplazione davanti a un quadretto che rappresentava uno dei piú luridi angoli del ghetto di Firenze. «Guarda quelle sudicerie — diceva uno — , quando son dipinte, come paion belle!».

È proprio cosí; e quel popolano enunciava un verissimo e profondo principio d’arte, che in certa misura si può applicare alla poesia, ed egregiamente a quella d’Esiodo. Proiettate in uno stile nitido, preciso, alieno da ogni vuotezza e da ogni gonfiezza, illuminate dall’amore del poeta, tutte le piccole cose, anche le meno speciose, acquistano una virtù icastica che le innalza alla sfera dell’arte.

Poeta per manovali, pastori e paesani, lo chiamava Alessandro Magno, il quale non concepiva se non le cose grandi. Per iloti, rincarava lo spartano Cleomene. E un po’ tutti quanti gli antichi gli rinfacciarono una certa grettezza poetica (μικρολογία). Ed è giusto; ma non solo il carattere, bensì anche il pregio della poesia d’Esiodo sono determinati da questa micrologia, che, distaccandolo dalla serva greggia de-

  1. Si veda un curioso riscontro che nella sua versione de Le opere e i giorni Alfredo Panzini fa con un passo de L’isola dei Pinguini di Anatole France.