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     Intanto sotto, sopra una ficaia
Udì cantar tra lor certi terzetti
Del Molza, un papagallo, e una giandaia.
     Siate voi mille volte benedetti,
Allor (diss’io) ch’almen le poesie
Son qui cantate da vaghi augelletti.
     Facean le piche altrove le pazzie,
Che la fava del Mauro era coperta
Dì pulcion negri, ed altre malattie.
     Io stava intanto con l’orecchia aperta,
E mi parea sentirmi d’ora in ora
Chiamar: venite, che la porta è aperta;
     Fer quei poeti assai lunga dimora
D’intorno alla cagion del venir mio,
Pria che mi risolvesser dentro, o fuora.
     E vi furon di quei, che disser, ch’io
Atto non era pur per le cucine,
Benchè i più favoriro il mio desio.
     Lette insomma le lettre fin al fine,
E nel sigil riconosciute quelle
Serenissime palle fiorentine,
     S’aprì la porta, ov’io corsi in pianelle
Per veder quei poeti a la civile,
Con capucci di porpora, o di pelle.
     Ma a la mia bassa musa, e al rozzo stile
Non fu concesso di por dentro ’l piede,
Ma star di fuor guardando dal cortile.