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procedeva, il frastuono della vita umana, quasi a gradi, ridestavasi distinto; e, infine, scorgemmo agglomeramenti grandi di persone, la feccia più infame della plebaglia di Londra, che venivano, passavano, arrestavansi e partivano balenanti. Qui il mio vecchio uomo sentì ancora infervorarsi le convulsioni del suo spirito, a guisa di lampada in agonia. Tutto a un tratto ci voltammo da un lato; quale spettacolo! Una luce rossigna ed abbagliante ci percosse la vista, e tosto ci accorgemmo di trovarci al cospetto d’uno dei più frequentati suburbani templi della dea Intemperanza — uno dei palazzi del demonio Gin1.

Si avvicinava l’alba, ma una folla di sciagurati ubbriaconi stava ancora accalcata e dentro e fuori del fatale albergo. Il mio vecchio uomo, gittato quasi un grido di gioia, aprissi il passo in mezzo alla calca, riprese la primitiva sua fisonomia, e — senza scopo deciso — posesi a solcare per ogni verso la baccanella. Ma, passati appena pochi minuti che s’ebbe preso tal libertà, un violento sbattere di porte ci rese avvertiti che l’oste, per l’ora avanzata, stava finalmente per chiudere. Ciò che io osservai sulla fisionomia di quest’essere singolare, da me tanto ostinatamente spiato, era un non so che di più forte, di più acuto, di più intenso della stessa disperazione.

E nondimeno l’uomo non esitò un attimo in quella sua fantastica corsa, e con energia disperata ritornò subitamente nella mia direzione per recarsi ancora nel centro della popolosa Londra.

  1. Gin, Geneva; liquore distillato dalle bacche del ginepro, di cui fanno deplorevole abuso le povere plebi di Londra.