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certo penuriava di quanto il mondo usa chiamare beni di fortuna; avvegnachè avendo io eredato le sostanze di Ligeia, assai più me ne fosse toccato di quanto il destino d’un povero mortale ne potesse abbisognare. Per lo che, consumati alcuni mesi in una vita errante, uggiosa, senza scopo, mi addussi in un ritiro sconsolato, specie di abbazia, di cui feci acquisto, della quale non giova fare il nome; una delle più incolte e men frequentate località della cara Inghilterra. La trista e saturna ampiezza del fabbricato, l’aspetto quasi selvaggio del dominio, le meste e venerabili ricordanze cui legavasi erano in perfettissima armonia col sentimento di completo abbandono che aveami spinto a tale esilio in una regione solitaria e lontana. Non pertanto, pur lasciando all’esterno dell’abbazia quas’intatto il primitivo suo carattere ed il verdeggiante squallore ond’eran tappezzate le sue pareti, mi diedi con pueril malignità, e forse con flebile speme di distrarre le mie amarezze, mi diedi, dico, a far pompa nell’interno di magnificenze piucchè straordinarie, regali. Io era stato sino dalla mia infanzia mattamente preso dal gusto di siffatte frivolezze, le quali ora mi ritornavano come un vaneggiamento del dolore. Pur troppo! mi accorgo che in tali lussureggianti e fantastici sfarzi di drappi, in quelle sculture egiziane siffattamente grandiose e solenni, nelle ampie cornici e nelle stravaganti mobiglie, negli stranissimi arabeschi dei tappeti lavorati e sopraccarichi d’oro, pur troppo, ripeto, m’avveggo non sarebbe stato difficile scuoprire i primi segni forieri della mia follia! L’oppio era diventato il mio re, il mio tutto; ei mi teneva nelle sue spire, ed ogni mio lavoro,