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possibile; e questi cercheranno sempre di venderla loro al maggior prezzo che possono. In questo negoziato quali delle due parti soccomberà?... Questo è evidente: la più numerosa». Cotal vero non può negarsi, che per ignoranza o per difetto di buona fede: il capitalista mira sempre ad accrescere il prodotto netto, quindi il ribasso della mercede alla ruina dell’operaio; il proprietario a trarre quanto più sia possibile dal fittaiuolo onde alimentare i suoi ozi, poco curandosi dei bisogni di quello. La proprietà fondiaria venne già scrollata dalle riforme del XVIII secolo, che scemarono molto il suo ascendente sui destini della società; oggi è il capitale l’arbitro dell’umanità, per esso corrono prosperi i tempi. L’umano ingegno datosi all’industria, non si tardò ad inventare macchine, strumenti, trovati che ne facilitano il progresso. Ma in questo progresso la vittima è stata l’operaio; le macchine e la divisione del lavoro hanno accresciuto il prodotto netto, e nel tempo medesimo ribassato grandemente il salario; e quello e questa riducendo l’opera dell’uomo ad un atto puramente materiale e costante, non è rimasto al misero operaio nessuna attitudine di cui possa avvalersi. Un tal fatto gli economisti nol niegano, ma come rimediarvi, essi dicono? Sostituiremo i viaggi sul dorso d’uomini alle strade ferrate, la vanga all’aratro, il copista alla stampa? Non si arriva, soggiungono, senza perdite sulla breccia! Nè possiamo tener conto di coloro che il corso del progresso schiaccia nel suo cammino. E l’economista, atteggiandosi qual benefattore dell’umanità, con una gravità sotto cui nasconde la sua ipocrisia, vi dice: noi miriamo al bene pubblico non già il privato. Meno quest’ultimo asserto, le loro risposte sono giuste; sarebbe stoltezza pretendere di arrestare i voli dell’umano ingegno; a noi basta registrare un vero, un fatto, un risultato ch’eglino