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l’ironia comica nella poesia cavalleresca 97

sioni l’Amore, a scherno e a tormento degli uomini. Se voi ridete di quelli, potreste ugualmente ridere di voi.

Frate, tu vai
L’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo.

Sotto la favola è la verità. Vedete: il poeta non ha che a gravare un tantino la mano, perchè la favola gli si muti in allegoria. E la tentazione è forte, e qua e là egli difatti vi casca; la fantasia però subito lo risolleva, per fortuna, e lo richiama al giusto grado e al giusto tono, in cui fin da principio s’era messo: «Dirò d’Orlando,

Che per amor venne in furore e matto
D’uom che sì saggio era stimato prima;
Se da colei che tal quasi m’ha fatto,
Che ’l poco ingegno ad ora ad or mi lima,
Me ne sarà però tanto concesso
Che mi basti a finir quanto ho promesso.

E fin da principio lo stile ha virtù magica. Tutto il primo canto è, nella rappresentazione, fantasmagorico, corso da lampi, d’apparizioni fugaci. E questi lampi non sprazzano per abbagliar soltanto i lettori, ma anche gli attori della scena. Ecco: ad Angelica balza innanzi Rinaldo; a Ferraù, che cerca l’elmo, l’Argalia; a Rinaldo, Bajardo; a Sacripante, Angelica; a tutt’e due, Bradamante, e poi il messaggero, e poi Bajardo di nuovo e poi di nuovo Rinaldo. E questi lampi, dopo il rapidissimo guizzo, si estinguono comicamente, con la frode dell’illusione improvvisa. Il poeta esercita, cosciente, questa sua magia; non dà mai tempo; lascia questo e prende quello; sbalordisce e sorride dello sbalordimento altrui e de’ suoi stessi personaggi.

Non va molto Rinaldo che si vede
Saltare innanzi il suo destrier feroce:
Ferma, Bajardo mio, deh ferma il piede!
Chè l’esser senza te troppo mi nuoce.

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