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il gran passo 63

di case che si attrista dietro a loro, somigliano certi fortunati del mondo che di fronte alla miseria troppo vicina prendono un sussiego ostile, si stringono l’uno all’altro, si aiutano a tenerla indietro. Fra queste gaudenti, casa Rigey è una delle più scure di fronte alla poveraglia delle case villane, una delle più chiare di fronte al sole. Dalla porta di strada un andito stretto e lungo mette ad una loggetta aperta da cui si cala per pochi scalini sulla piccola terrazza bianca che, fra il salotto di ricevimento e un’alta muraglia senza finestre, si affaccia all’orlo del monte, spia giù i burroni ond’esce il Soldo, spia il lago fino ai golfi verdi dei Birosni e del Doi, fino alle distese serene di là da Caprino e da Gandria.

Il signor Rigey, nato a Milano di padre francese e professore di lingua francese nel collegio di madame Berra, perduto il posto, perduta gran parte delle lezioni private per la fama cresciutagli attorno d’uomo irreligioso, aveva comperato la casetta nel 1825 per ridurvisi da Milano a vivere in quiete e con poca spesa, aveva sposato la sorella dell’ingegnere Ribera ed era morto nel 1844 lasciando a sua moglie una figliuola di quindici anni e poche migliaia di svanziche oltre la casa.

Appena l’ingegnere ebbe bussato alla porta, non tanto piano, si udì un correr leggero nell’andito, fu aperto e una voce non sottile, non argentina, ma inesprimibilmente armoniosa, sussurrò: «Che strepito, zio!» «Oh bella!» fece patriarcalmente