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62 capitolo iii

simo. No, no, no. Propramente mi no posso, mi resto qua. Le vegnarà ben in ciesa. La ciesa xe qua. Mi speto qua. Corpo de sbrio baco!»

Questo secondo «corpo» il signor Giacomo se lo masticò privatamente in bocca come la chiusa d’un monologo interno sugli accessori dell’impiccio principale in cui s’era messo.

«Aspetti» fece l’ingegnere.

Un fil di luce usciva dalla porta della chiesa. L’ingegnere vi entrò e ne uscì subito col sagrestano che stava preparando gl’inginocchiatoi per gli sposi. Costui recò in soccorso del Puttini la lunga pertica col cerino acceso sulla punta, che serve per accender le candele degli altari. Potè così, fermo sull’entrata del sottoportico, porger via via, quanto era lunga la pertica, il suo lumicino davanti ai piedi del signor Giacomo che, malissimo contento di questa illuminazione religiosa, procedeva brontolando contro le pietre, le tenebre, il moccolo sacro e chi lo teneva, sinchè, abbandonato dal sagrestano e abbrancato dall’ingegnere, fu tratto, malgrado il suo muto resistere, come un luccio alla lenza, sulla soglia di casa Rigey.


A Castello, le case che si serrano in fila sul ciglio tortuoso del monte a godersi il sole e la veduta del lago in profondo, tutte bianche e ridenti verso l’aperto, tutte scure verso quell’altra disgraziata fila