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ore amare 307

e gli occhietti come un merlo di buon umore, a guardar ora il monte ora il lago quasi per un’abitudine di sospetto. Scorse una barca che veniva da Porlezza. Chi sa? Non potrebb’essere l’I. R. Commissario? Benchè la barca fosse ancora lontana, pensò subito di cavarsela, pensò di andar col Puttini a visitar il Ricevitore per aver la fortuna di non trovar la süra Peppina in casa.

Scambiati con Franco saluti sommessi e frettolosi, i due vecchi leproni trottarono via a testa bassa e Franco rimase nell’orto. L’aria era mite, il picco di Cressogno saliva senza neve, tutto glorioso di sole, nel sereno, il sole dorava ancora le coste giallognole della Valsolda picchiettate di ulivi, mentre dall’altra parte del lago scendevano sino all’acqua, nell’ombra azzurrognola, i grandi padiglioni bianchi della Galbiga nevosa e del Bisgnago. Franco stette a guardare col cuore grosso il caro paese de' suoi sogni, de’ suoi amori. «Addio, Valsolda» pensò. «E adesso voglio salutare anche voialtre.»

Voialtre erano le sue piante, gli aranci amari, l’olea sinensis, il nespolo del Giappone, il pinus pinea, che verdeggiavano a giusti intervalli lungo il viale diritto, fra le aiuole degli erbaggi e il lago; erano i rosai, i capperi, le agavi che uscivano a pender sopra l’acqua dai fori praticati nel muro. Tutte piccole vite, ancora; il colosso della famiglia, il pino, non misurava tre metri; piccole, pallide vite che parevano sonnecchiare nel pomeriggio in-