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Görgey, con un sorriso beffardo, mi rispose:

— Non ci batteremo punto. Partite.

Partii.

All’indomani, Görgey aveva cangiato d’avviso. La prima sua ispirazione era, per altro, buona. Egli l’aveva adottata, dietro un Consiglio di ufficiali superiori. Ora eseguiva quella stessa ritirata, sotto la pressione immediata dei battaglioni austriaci, che affluivano da ogni parte e lo circondavano. Onde, la fu una ritirata brillante, ma disastrosa.

L’inverno si mostrava severo. L’immenso piano dell’Ungheria era divenuto una stesa di neve, chiazzata qua e là da paludi traditrici, come quella di Hansag, che inghiottì un quarto della brigata di Leopoldo Zichy. L’atmosfera aveva un colore plumbeo, ove ondulavano talvolta, come vele stracciate dalla tempesta, dei cenci di nebbia sucida, moventisi lentamente, cadenti di botto. Non c’era più di azzurro, che negli occhi elettrizzati dei nostri honved. Faceva un freddo terribile. Le notti erano nere. Non trovavi più traccia di strade, e quelle vicine ai corsi d’acqua, erano sfondate ed impraticabili. Bisognava marciare attraverso i campi, a caso. Le truppe vestite leggermente e troppo cariche compivano delle marcie interminabili, sempre sul chi va là, non prendendo fiato che per respingere l’inimico, non riparando la loro sinistra, senza trovarsi di fronte ad un pericolo a destra. Malgrado i bei combattimenti di Kmety a Pahrendorf, e di Guyon, l’abile e valente irlandese, a Nagy-Szombath, che coprirono la ritirata; malgrado il combattimento di retroguardia a Raab, che si dovette sgomberare, la marcia retrograda continuò. Görgey fu respinto a Babolna, e