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Partimmo in mezzo agli applausi di tutti gli abitanti di quella città; le donne ci inviavano dei baci, i vecchi delle benedizioni, i giovani degli augurii. Il colonnello si tenne sempre alla coda del reggimento, sotto il pretesto di star vicino a sua moglie, che ci seguiva a cavallo. Mi fe’ restare presso di sè, onde trasmettere al reggimento i suoi ordini in ungherese, lingua ch’egli non parlava. Arrivammo al Dniester. Pioveva da tre giorni: il fiume era ingrossato e torbido. Bisognava traversarlo a nuoto. Il primo squadrone vi si lanciò; il terzo lo seguì. Il colonnello non si mosse. Quando tutti furono all’altra riva, egli afferrò con violenza la briglia del cavallo di sua moglie, dicendole:

— Seguimi.

— Soccorso! gridò la contessa, strappandogli dalle mani la briglia.

M’interposi.

— La signora contessa vuol ella continuare il viaggio verso la sua contrada? le domandai.

— Sì, lo voglio.

Per sola risposta, il colonnello cavò una pistola dagli arcioni, e fece fuoco su di me. Mi sbagliò. Tirai a volta mia. Egli cadde. Il colonnello Tichter era un colosso. M’impadronii allora delle briglie del cavallo di Amelia, e ci lanciammo nel fiume. Fummo accolti all’altra riva con urrà interminabili: i miei compagni avevano veduto tutta la scena. Continuammo la marcia. Ci mancavano viveri e denari. Quel po’ di pane che i contadini ci somministravano, era dato ai cavalli, e per nostro conto ci alimentavamo con torzoli di cavoli, di granturco e di legumi crudi, che si potevano trovare. Avevamo fretta d’arrivare.