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bianco e pulito, somigliante a delle colonne; i rami e le foglie coprivano il luogo d’un baldacchino magnifico. Si sarebbe detto la moschea di Cordova tappezzata di lampasso verde. Una dozzina di fuochi immensi, là disseminati, crepitavano gioiosamente, e facevano come una corona al fuoco di mezzo più considerevole degli altri. Attorno a questi roghi vi erano degli uomini che, al grido di chi vive! si erano tutti alzati. Essi mi parvero dei giganti. Il riverbero spiccato delle fiamme, addolcito dal lume della luna, dava a questi uomini una statura colossale, cui la foggia del vestito e l’atteggiamento rilevavano potentemente. Tutti avevano preso le armi che scintillavano a questo barlume. Questi cacciatori del Signore, vestiti di grosso velluto nero, portavano delle uose di panno sino a mezza coscia. Un panciotto di velluto a bottoni di argento si apriva in sul petto: una larga fascia di tela di cotone, a righe bianche e rosse, raddoppiata a parecchi giri, stringeva loro la vita. Sul loro capo civettava un piccolo cappello a punta, adorno di molti nastri e di penne di pavone, inclinato su l’orecchio destro, e ritenuto sotto il mento da un cordone. Il collo nudo, il colletto della camicia leggermente rovesciato. Questi uomini avevano un aspetto di straordinaria virilità. Degli occhi, che avrebbero fuso le monete d’oro d’un avaro. Senza baffi; delle basette enormi, nere come le notti di dicembre. Il tipo greco, indorato al colore indiano. Le loro labbra respiravano ogni specie d’ebbrezza, ogni specie di appetiti: dei denti bianchi come il marmo di Carrara. Alla cintura, dei coltelli; in bandoliera, una scatola di cuoio per mettervi le cartuccie, un bicchiere di latta, una piccola otre di pelle per il vino.