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cedevamo più spediti. Due giorni dopo, arrivammo al nostro accampamento, e disotterrammo la slitta, la tenda, le provvigioni. Siccome noi dovevamo restare in quel sito un mese circa, così scegliemmo un posto convenevole, bene ricoverato. Rizzammo la tenda; ed affinchè fosse più solida, ci mettemmo all’indomani a rinchiuderla in una specie di casa — una casa costrutta di aste e rami intrecciati, spalmata di strati di neve, sui quali versammo dell’acqua, che, gelandosi, le fece uno splendido intonaco di diamante. La slitta fu collocata nella casa, di cui assicurai l’approccio, praticandovi feritoie. Eravamo, insomma, confortevolmente alloggiati.

Metek calzò le sue lija — pattini da neve — e partì il dì seguente. Prese alcuni viveri, un po’ di tabacco e di acquavite, e 300 rubli: più, un fucile. La speranza ritornò in noi. Ma, calcolando tutto al meglio, Metek non poteva esser di ritorno che alla fine di gennaio. Venti giorni di angoscia, rallegrata da qualche raggio di fiducia nella giustizia e misericordia di Dio.... Non ridete, o signori, io sono Polacco: dunque cattolico.

Nell’intervallo, io cacciai molto e con qualche fortuna: cicogne, lepri, linci, argali, una renna selvaggia, volpi...; ne avrei ucciso ancora, ma non rischiavo mai un colpo per un solo uccello — gli uccelli, del resto, erano rarissimi. Praticai un buco nella riviera, e pescai qualche salmone larareto, che tagliai a fette sottilissime, le quali, gelate, ci somministrarono una squisita struganina. Presi, nei cavi, dei topi e delle marmotte, una buona bica di radici di sanguis-orba e di rubus chamemorus, il cui gusto zuccherino è gradevolissimo. Cesara si rimise