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— Bisogna nondimeno tirarci di qui, riprese Metek. Si muore anco, ma si deve lottare contro la morte.

— Conoscete voi bene la contrada ove abbiamo naufragato?

— Perfettamente. Siamo a centocinquanta verste da Verknè-Kolimsk, il solo sito, nel giro di mille o millecinquecento verste, in cui potessimo trovare un aiuto qualunque.

— Bisogna recarvisi a piedi, risposi io. Se noi cadiamo spossati, voi vi salverete.

— Non si tratta di noi, vale a dire voi e me, padrone. Gli uomini della nostra tempera muoiono sotto la mano di Dio, di raro sotto i colpi della sventura. Ma vostra sorella?

— Ah! sclamai io, che fare?

— Ebbene, proviamo, disse Metek. Le yurte sulla Kolima erano altravolta numerose; ora l’epizoozia, la miseria le hanno deserte. Non ne troveremo una ogni sera al termine della nostra marcia, ma ne troveremo ancora, senza dubbio, per riposarci un giorno, di tempo in tempo. La giovane padrona può percorrere sei o sette verste al dì?

— Ne dubito.

— Lo posso, rispose Cesara, che ascoltava la nostra conversazione, rialzando la testa; senza la neve ed il freddo, potrei camminare anche di più.

— Allora proviamo. Chi ci dice che non troveremo in una di queste yurte una narta con una muta di cani?

— Io sarò pronta fra due giorni, disse Cesara. Non domani: sono troppo affranta.

— Ci occorre questo tempo, riprese Metek. Noi non trascineremo certo dietro a noi tutto ciò che