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passo a passo, quasi strisciando, verso la cantatrice, e fregò il suo muso alle pellicce di Cesara.

Ciò si fece come in un lampo.

Metek passò al collo dell’orso un collare delle nostre renne, l’annodò alla slitta, caricò i due quarti di dietro delle nostre povere bestie sui pattini della predella, ove egli appoggiava i suoi piedi, e punse l’orso, incitandolo a mettersi in cammino. Non era il momento di pensare al riposo, nè al pranzo, nè al freddo, nè a che che sia. Bisognava profittare dell’ammaliamento del difficile melomano. La malìa però non durò lungo tempo.

L’orso, sentendo il suo collare e la puntura dello zenzero, si rivolse con aria costernata e stupefatta verso Metek. Questi lo fissò con tutta la potenza dei suoi occhi vivi e grigi, e, scuotendo le redini e rinnovando il pungimento, emise un suono gutturale che risuonò nello spazio. L’orso fece qualche passo, saggiò il peso che aveva a tirare — non gravissimo per lui — si rese conto del suo destino, e fermossi. Per buona ventura, e’ non pensò a rivoltarsi. Io lo teneva, del resto, sotto la mira del mio fucile. Fu questa vista che lo decise? Non so. Il fatto sta che dietro un novello invito di Metek, più urgente, più determinato — lo punse colla punta del suo coltello — l’orso si rimise in cammino.

Esso andò dapprima con un passo maestoso, come un giudice o un vescovo; poi perdè la pazienza, forse in vista di liberarsi del suo fardello, e cominciò a correre. Noi salivamo una vallata fra due montagne. L’ascensione era ardua; ma la neve indurita ci sosteneva bene, ed addolciva le difficoltà del passo. Però, blocchi immensi di piperno ci ostruivano tal-