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berta, richiamare a me i suoi spettatori, e provargli ch’egli è un fiero animale.

Don Gabriele ruminava ancora questo progetto quando, discendendo di diligenza all’angolo della strada S. Giacomo e del Largo del Castello, si trovò faccia a faccia col teatrino del suo allievo che spippolava ad un magro uditorio non so che scipida cantafera. Don Gabriele corse ad udirlo. Fremè, la bile gli arrossò il naso ed i bernoccoli. Assistè all’anelito estremo dell’arte e disperò. Di un tratto; egli salta dietro il casotto in tela, morde la gamba del suo allievo e grida:

— Discendi, brigante, tu non sei neppur degno di essere priore a S. Maria la Nuova.

Salvatore, l’allievo, gettò un grido, riconoscendo la voce e i modi di don Gabriele, e si precipitò su di lui per abbracciarlo. Don Gabriele lo respinse. Afferrò le marionette, salì sullo sgabello, fece lo zufolo d’uso col suo piccolo fischietto e cominciò ad improvvisare una mattezza a screpolare la pelle dal ridere, sul suo ritorno, sulle sue scene con la polizia romana, su i suoi riboboli in napoletano che i romani avevano capito di traverso, in una parola, un’odissea scompigliata, fantastica, buffa, saltabeccante, libera, che contorse le costole degli spettatori per due ore.

L’estro del vecchio artista faceva esplosione.

Allettato da questo enorme successo, egli corse sul Molo.

Il ritorno di don Gabriele fu un avvenimento. Tutti lo conoscevano. Tutti avevano sentito la sua assenza, tutti lo sospiravano. Il successo fu fre-