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«Caro fratello, diceva quella lettera, Concettella ti dirà tutto ciò che è occorso. Io ho amato, in un secondo; io ho amato per qualche ora. Mi sono data a lui con estasi. Ho voluto renderlo beato; conoscere io stessa l’amore. Ma come, me vivente, i gesuiti lo avrebbero ucciso, io ho cessato di vivere, affinchè lo lascino vivere e gli perdonino. Io non potevo fare meno per lui che per te: a te l’onore, a lui la vita. A dio! in dio!»

La giornata scorse nella massima calma. Bambina mangiò, rise, scherzò, confessò il suo amore pel gesuita a Concettella, parlò di lui, fu sfrontata di curiosità femminile da far arrossire Concettella. Ella voleva piacere, dare in due ore tutto ciò che l’amore può dare in dieci anni, godere, ubbriacare, inebbriarsi ella stessa di quell’incognita che addimandisi voluttà, morire nella febbre, nel delirio nella follia.

La notte giunse. Bambina sollecitava le ore coll’ansietà.

Dalle dieci, si mise alla finestra per vedere arrivare la vettura che lo conduceva a lei. Tutto l’appartamento era vivamente illuminato, ornato di guastade di fiori. Ella si era vestita il meglio che aveva potuto e saputo, quasi che il fiore splendidissimo ed effimero del cactus grandifloris avesse avuto bisogno dei cenci di una cucitrice. Si scollacciò senza modestia, si profumò. Voleva tutto offrire, tutto mostrare, tutto dare, senza riserbo. Non si apparteneva più. E non sapeva tenersi cheta.

Alle undici, come il conte Bonvisi aveva detto