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violetto, poi azzurro, poi color di piombo, poi nero. Dopo aver terribilmente chiusi i denti fino a smussarli, egli aperse la bocca come un antro. I suoi occhi divennero prima lucidi, poi iniettati di sangue, poi opachi, infine uscirono dalle orbite, fuori le arcate sopraccigliari. Le palpebre sparvero; le pupille invasero la cornea. Il collo si gonfiò, il naso si profilò. E’ tremò sulle ginocchia e si abbiosciò. Il dolore acuto, intenso, spaventevole che aveva cominciato a sentire, lo oppresse. E’ perdè la coscienza della sua esistenza. La notte lo avviluppò.

— L’apoplessia si dichiara, disse il medico. Bisogna ucciderlo?

— Disserra la vite, ordinò il commissario.

Il torchietto fu allargato, ma non tolto. Si misero delle compresse di aceto sulla testa del paziente, gli si levarono le manette, lo si strofinò sulle spalle, gli si cavarono gli stivali e si avvicinò il braciere ai piedi, non tanto per infliggergli un altro supplizio, quanto per ristabilire la circolazione. Venti minuti passarono prima che lo sventurato riprendesse coscienza della vita.

— Persistete voi nel silenzio? domandò il commissario.

— Io non ho nulla a dire, mormorò Don Diego con voce estinta.

— Si ricomincierà; riflettetevi, riprese il commissario.

— Voi potete uccidermi; io non posso parlare di ciò che ignoro.

— Rinserrate il torchio, diede l’ordine Gravelli.