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se n’erano già andati) mi buttai su una cassa, e lo guardai disperata. Lui disse: — Ho finito da un’ora. Oggi è sabato.
— Vigliacco, — gli dissi. — Anche tu. Vattene.
— Andiamo a mangiare un boccone? — mi disse.
Scossi la testa, guardandomi intorno. Allora accese una sigaretta, adagio, e venne a mettermela in bocca. Spaccando le casse, s’era ferito a una mano. Gli dissi di andare a disinfettarsi.
Tornò con un pacco di arance e del pane. Mangiammo seduti sulle casse e mangiando guardavamo intorno e facemmo il bilancio. Tutto il possibile era fatto, mancava soltanto un’occhiata di Febo ai salottini e la pulizia materiale.
Becuccio disse: — Abbiamo tempo perfino a fare una scappata in val Salice.
Lo guardai seria, poi feci una smorfia, poi gli dissi che queste cose non riescono due volte. Lui mi venne vicino e mi prese il mento. Ci guardammo cosí, qualche secondo. Mi lasciò andare e si staccò.
Allora dissi: — C’è una festa da un pittore. Ci vanno quelle ragazze. Vuoi venirci anche tu?
Mi guardò fisso un momento, con un’aria incuriosita. Scosse il capo.
— No, padrona, — disse. — Non arrivo piú in là dei ceti medi. Non serve.
Mi promise che l’indomani avrebbe cercato Febo e me l’avrebbe mandato in albergo. Mi accompagnò fino al portone di Loris, e se ne andò senza insistere.
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