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vecchia grifagna col nastro al collo e il mantelluccio, rividi il cerchio di signori accigliati, i lampadari, il tappeto. Di gioventú ce n’era meno dell’altra volta, stavano compunti sulle sedie imbottite, Loris mancava. Tra le donne Rosetta e Momina mi sorrisero.
Il violinista suonò bene, come suonano i violinisti in questi casi. Era un ometto grasso, dai capelli bianchi, che baciò la mano a tutte; non si capiva se veniva a pagamento o come amico. Rideva con la lingua nella guancia e ci guardava le gambe. Al piano l’accompagnava una dama linfatica con gli occhiali e una rosa rossa sulla spalla. Le signore esclamarono: «Bravo». Tutto sommato, mi annoiai.
Morelli batteva le mani convinto. Quando venne il tè, cercai Rosetta e Momina. — Appena si alza la vecchia, — dicemmo, — ce ne andiamo anche noi.
Mariella mi prese in un angolo. — Vengo anch’io, — disse, aspettatemi.
Finí che ci tirò dietro tutti quanti, anche il violinista. Sotto il portone la dama dagli occhiali si mise a gridare: — Il maestro vuole regalarsi con noi — . Tutti parlavano in francese.
Nella macchina mi trovai accanto Rosetta. Le dissi al buio, nella confusione: — C’è andata male. Meglio Ivrea.
— Non è ancora mattino — disse Momina, salendo.
Per il violinista che stava con le signore e con Morelli nella grossa macchina di Mariella, regalarsi con noi voleva dire fare il giro del centro, fermarsi davanti ai caffè, metter fuori la testa discutendo e poi far segno di ripartire. Dopo tre o quattro di questi giochi, Momina disse: — Vada al diavolo, — e ripartí per conto suo.
— Dove andiamo?
— Al tuo albergo, — mi disse.
Entrammo gloriose nella sala dell’albergo. Qualcuno levò la testa.
— Non ti fa senso? — disse a Rosetta che camminava tra noi, coi pugni tesi.
Rosetta sorrise appena. Disse: — C’è rischio che nessuno abbia pagato il conto. Purché non ci caccino via...
— Non ci sei piú tornata? — chiese Momina.
Rosetta alzò le spalle. — Dove sediamo? — dissi.
Il cameriere ci serví i tre cognac. Dietro il banco Luis mi strizzò l’occhio.
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