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XV.

A sentire quelli di Roma il negozio doveva esser pronto alla metà di marzo, e mancavano ancora le volte del primo piano. Lavorare con Febo divenne difficile; si mise a dire che a Roma non capivano niente e che, se io non sapevo impormi, lui sí. Era tornato da Ivrea con un’aria sorniona; non arrivò a parlare del conto dell’albergo ma mi diede del tu. Gli dissi che a Roma prendevo ordini ma a Torino li davo, e quanto voleva per il suo disturbo. Senza alzare la voce, ce la feci. L’indomani mi arrivò un mazzo di fiori che regalai a Mariuccia.

Ma Roma era un guaio. In una lunga telefonata notturna mi diedero la notizia: negozio e vetrine restavano, ma al primo piano i salotti di prova e il gran salone cambiavano arredamento, prendevano un nome e uno stile. Bisognava trovare specchiere, stoffe, lampadari, stampe, non sapevano ancora se barocco o che cosa. Dovevo dirlo all’architetto, far progetti, fotografie, mandare a Roma qualcuno. Sospendere tutto. Anche i tappeti e le tendine.

— Per il quindici? — dissi.

Non facevano questione di tempo. Meglio presto, si capisce. Comunque, entro il mese.

— Troppo poco, — dissi.

— Mandi qui l’architetto.

Non lo mandai, ci andai io. La sera dopo, avevo fatto il bagno in casa mia e, dato aria alle stanze, camminavo sui ciottoli soliti. Seguirono due giornate infernali di scirocco in cui rividi le solite facce annoiate e non si veniva mai al dunque. Quella era Roma, lo sapevo. A metà di una discussione, entrava un tale, una tale, attaccava a parlar lui, ci si alzava, si diceva: — Bisogna tenerne


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