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di vivere, di tutto e di tutti, del tempo che va cosí presto eppure non passa mai — Momina accese una sigaretta e suonò il clacson.

— Ne riparliamo, — disse ridendo.

Il giardiniere ci apriva il cancello. Entrammo sulla ghiaia. Quando uscimmo davanti agli scalini, la madre impaurita sbucò sulla porta.

— È tutto quanto che non ha senso, — disse ancora Momina.

Ripartimmo per Torino in carovana. Rosetta con noi; la madre con la cameriera e l’autista sulla grossa automobile venuta apposta da Torino. Tutta la mattina, in attesa della macchina, avevamo gironzolato per la villa e il giardino discorrendo, guardando le montagne. Ero stata sola con Rosetta una volta; m’aveva condotta di sopra, su un terrazzo, dove — mi disse — da bambina si confinava ore e ore per leggere e guardare le cime degli alberi. Laggiú c’era Torino — mi disse — e nelle sere d’estate da quel cantuccio lei pensava ai paesi di mare dov’era stata, a Torino, all’inverno, ai visi nuovi che un giorno avrebbe conosciuto.

— Sovente ingannano, — le dissi, — non crede?

Lei disse: — Basta guardarli dentro gli occhi. Negli occhi c’è tutto.

— C’è un altro modo, — risposi, — lavorare con loro. La gente lavorando si tradisce. È difficile ingannare, sul lavoro.

— Che lavoro? — lei disse.

Cosí viaggiammo verso Torino e io pensavo che né lei né Momina sapevano cos’è lavoro; non s’erano mai guadagnata la cena, né le calze, né i viaggi che avevano fatto e facevano. Pensavo com’è il mondo, che tutti lavoriamo per non piú lavorare ma se qualcuno non lavora ci fa rabbia. Pensavo alla vecchia Mola, la signora, che s’era trovato il lavoro di agitarsi su quella figlia, di correrle dietro, di non lasciarle mancar nulla, e la figlia la ripagava con quegli spaventi. Mi tornarono in mente Gisella e le figlie; il negozietto, «ci siamo ristrette», e tutto per tenerle a far niente, nel velluto. Divenni cattiva. Rividi la faccia di Febo. Mi misi a pensare a via Po.

Ci andai prima di sera, dopo un bagno che feci all’albergo. Nessuno era stato a cercarmi, neanche Morelli. C’era però sul tavolino un mazzo di lilla, con un telegramma di Maurizio. «Anche questa», pensai. Facendo niente tutto il giorno, aveva tempo di pensare a queste cose. Era un mese giusto che mancavo da Roma.

Trovai Becuccio che sorvegliava l’arrivo dei cristalli. Non indos-


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