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Qualche volta era ingenuo, Pieretto. Gli dissi allora che non basta avere in mente la salute, per fare o non fare una cosa. Gli dissi che Poli, per pazzo che fosse, era un uomo malinconico, un uomo solo, di quelli che a forza di pensarci sanno già prima quel che gli deve toccare. — Di Gabriella lo sapevi? — Che cosa? — Che è innamorata come un gatto.

Questo l’ammise. Ma poi disse: — Chi è il topo?

Discesero tutti, anche Poli. Aveva un’aria piú che altro infastidita, gli occhi cavi nella faccia smorta. Ci disse con la solita voce che non c’era ragione di cambiare abitudini, che il mondo è pieno di gente che perde sangue dal naso, che chi ha voglia di vivere vive.

Oreste spiegò, freddo freddo, che la cosa doveva esser vecchia, e non capiva come all’ospedale non se ne fossero accorti. Parlava senza guardare Gabriella. — Devi subito farti vedere, — gli disse. — Devi andare a Milano.

Allora Gabriella ci disse che scendeva ai Due Ponti per telefonare. — Vado io in bicicletta, — proposi. — Porta anche me, — disse Gabriella, — voglio parlare con suo padre.

Ma io non sapevo portare un altro in discesa, e allora toccò a Oreste, com’era giusto. Partirono, e Oreste se la teneva fra le braccia, con la gota sulla spalla.

— Ci beviamo sopra? — disse Poli, rientrando in casa. — Tanto vale.

Centellinò il suo bicchierino. Era terreo e sorrideva. Io pensavo a quella notte in collina, quando la macchina verde era sbucata tra le piante.

— Ci mancava anche mio padre, — disse Poli. — Meno male che presto sarà finita.

Pieretto brontolò di non dire sciocchezze.

— Cambia qualcosa? — disse Poli sommesso. Diede un colpo di tosse e si toccò la bocca. Tirò fuori una sigaretta.

— Smettila, — disse Pieretto.

— Anche tu, — disse Poli, ma non accese e la posò. — Sono i piccoli peccati che fanno la giornata. Giocarsi la vita in un vizietto, in cose da nulla. È tutto un mondo da scoprire.

— Il mondo è grande, — disse Pieretto, e trangugiò il suo bicchiere.

Quando Oreste e Gabriella tornarono, eravamo un po’ brilli e


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