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V.

Quella notte ballò anche Pieretto, perché Rosalba tenne testa a Poli e cercava di umiliarlo. Non so quanto liquore s’era bevuto tutti quanti, pareva che la notte non dovesse finir piú, ma l’orchestra aveva smesso da un pezzo e Rosalba chiamò un cameriere e voleva che Poli pagasse e ci portasse tutti quanti a colazione al Valentino. Vedevo agitarsi l’abito rosa nel cerchio del paralume — l’ultimo acceso sullo spiazzo — e dal Po salivano folate notturne di freddo. Siccome Poli, incaponito, riattaccava a discorrere con Pieretto e il cameriere, Rosalba scappò sull’automobile e si mise a strombettare. Allora uscirono il padrone, cameriere, clienti che bevevano l’ultimo al banco; Rosalba saltò a terra e chiamò Poli Poli.

Nel ritorno, Poli guidò cingendo Rosalba col braccio, e Rosalba s’allungava beata, soddisfatta di lui. Di tanto in tanto si voltava e sorrideva, come a rincuorarci, quasi fossimo suoi complici. Pieretto tacque, tutto il tempo. L’automobile non voltò per Torino, filò oltre i ponti, scattò sulla strada di Moncalieri. Nemmeno qui ci fermammo: era evidente che andavamo per andare, per far giorno. Chiusi gli occhi, ubriaco.

Mi risvegliò uno scossone, un sobbalzo come sull’onde di un vortice; quell’incubo durava da un pezzo, e un cielo luminoso, profondo, si apriva in alto e mi pareva di caderci a capofitto. Mi svegliai in una luce fredda e rosa, l’auto sobbalzava sui ciottoli di un paese, era l’alba. Battendo gli occhi alla ventata della corsa vidi che tutti dormivano, e il paese era chiuso e deserto. Soltanto Poli maneggiava il volante, tranquillo.

Fermò quando il sole comparve sul ciglione di un colle. Pieretto


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