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IV.

L’idea di passare un’altra notte bianca mi atterrí. Mio padre e mia madre non avrebbero detto niente; due parole sul tempo, un’occhiata su dal piatto, caute domande sugli appelli d’esame. Non so come Pieretto se la vedesse coi suoi; a me quei visi inermi facevano pena, e mi chiedevo che sorta di tipo fosse stato mio padre a vent’anni e che ragazza mia madre, e se un bel giorno avrei anch’io avuto dei figli cosí estranei. Probabilmente i miei pensavano al tappeto verde, alle donne, all’anticamera del carcere. Che cosa sapevano delle nostre smanie notturne? O forse avevano ragione: si tratta sempre di un tedio, di un vizio iniziale, e di qui nasce ogni cosa.

Quando fummo davanti all’Albergo con la signora Rosalba che passeggiava in su e in giú e Poli manovrava la macchina per farci salire, borbottai a Pieretto: — Patti chiari, stanotte. È già la mezza.

Era evidente che Poli ci voleva con sé per limitare le espansioni della donna. Su questo, anzi, scherzava. Ci aveva presentati a lei come «il meglio che esiste a Torino»: ascoltasse e imparasse. Nel mondo di Poli si è molto villani: ci si serve della gente con allegra sfrontatezza. Non capivo Pieretto che si prestava al gioco.

La signora Rosalba salí davanti, con Poli. Era una magra — poveretta — occhi rossi, sussiegosa, con un fiore nei capelli. Non poteva stare ferma, e già prima, aspettando, ci dava occhiate affannose, tentava sorrisi, si guardava nello specchio. Aveva un abito da sera rosa, sembrava la mamma di Poli.

Lui scherzava e ci diceva mille cose. Guardava la donna con occhi vispi, rideva e guidava. In un attimo fummo fuori Torino. Pieretto, chinandosi avanti, gli disse qualcosa.


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